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In un mondo dominato dalla televisione e dalla civiltà dell’immagine, quando si parla di “maschere” si pensa in primo luogo al Carnevale o qualche volta ai burattini. Ma dalla seconda metà del Cinquecento in poi e, soprattutto, nel Seicento, le maschere dominavano i palcoscenici dei teatri delle più importanti città italiane. Era l’epoca della “Commedia dell’Arte”, uno dei momenti più alti della storia del teatro, che con le sue maschere e le sue tipizzazioni si poneva al centro della vita sociale e culturale. Maschere e tipi fissi che esistevano già nella commedia classica e rinascimentale, ma che nel Seicento vennero a rappresentare o una regione d’Italia o una determinata classe sociale. Si pensi a Pulcinella, Pantalone, Arlecchino, Colombina, Balanzone e a tante altre maschere furbe o ingenue, timide o allegre, saccenti o astute, giudiziose o istrionesche che hanno divertito intere generazioni di spettatori di età e condizioni sociali diverse.
Esse furono le vere protagoniste di questo genere di teatro e ne determinarono il successo. Tra queste maschere, al tempo della Commedia dell’Arte, divenne famosa anche quella rappresentativa della Calabria, Giangùrgolo, figura di Capitano di origine spagnola, vanitoso e bugiardo, che ha più del furfante che dell’uomo d’armi. Secondo l’opinione più accreditata, dal punto di vista etimologico Giangùrgolo vuol dire “Gianni-Golapiena” o “Gianni Ingordo”, per sottolineare la sua caratteristica principale, quella che lo ha reso famoso: la fame, l’ingordigia, l’insaziabilità di cibo che l’accompagna sempre. E per soddisfare questo suo smodato bisogno, è disposto a tutto, a fare diversi mestieri, ad arraffare, e se gli capita l’occasione buona a rubare. E poi, sotto la spinta della paura, anche ad essere bugiardo e spergiuro. L’origine di questa maschera è incerta. Pare sia nata a Napoli verso la metà del XVII secolo e poi, passata in Calabria, sia rimasta maschera tradizionale della regione. Certamente, all’epoca, era tenuta in grande considerazione, tanto da essere rappresentata nella Commedia dell’Arte nei teatri di tutta Italia, comparendo fra i protagonisti già negli scenari di Giovanni d’Antonio. A parere di molti studiosi, la maschera di Giangurgolo è nata dal desiderio di mettere in ridicolo un tipo di personaggio stravagante, vanaglorioso, millantatore, donnaiolo, sempre affamato, presente nella società del tempo, che si identifica in modo caricaturale negli arroganti signorotti calabresi di quel secolo che imitavano gli atteggiamenti boriosi e insolenti degli ufficiali spagnoli. Infatti, dai suoi comportamenti e dal suo modo di parlare, Giangùrgolo appare un nobile principe ricco, tronfio, spavaldo, che incute rispetto o timore, mentre in effetti è tutto il contrario: fanfarono, vanaglorioso, fifone, che dinanzi all’avversario temerario cerca in tutti i modi di svignarsela o defilarsi. Si rivela anche un corteggiatore galante, capace dinanzi ad una bella fanciulla di mettere da parte le solite espressioni truculenti e di rivolgersi con toni languidi e parole pompose, in contrasto con la sua figura di capitano spavaldo. Nel ruolo di damerino cade spesso nel ridicolo, anche a causa dell’aspetto fisico sgraziato, il naso lungo e grosso, la voce stridula, col risultato di venire deriso e schernito dalle donne corteggiate. L’abbigliamento, per come appare negli scenari di D’Antonio, è quello di capitano spagnolo con elementi calabresi.
Giangurgolo porta sul volto una mascherina rossa con un nasone di cartone, in testa un alto cappello a forma di cono, di colore marrone o nero, con fascia rossa, ornato con una cadente piuma di pavone. Indossa un collettone bianco alla spagnola tutto pieghettato, un corpetto rosso e un giubbone a righe gialle e rosse con polsini bianchi merlettati, calzoni sotto il ginocchio e calze sempre a righe gialle e rosse, scarpe di vernice nera con fibbia, cinturone e un lungo spadone con bandoliera. Di questa simpatica maschera, che sui palcoscenici dei teatri secenteschi divertì il pubblico rappresentando la realtà regionale e dialettale calabrese, oggi sembra rimanere solo un ricordo, presente in qualche ricerca scolastica o in poche rappresentazioni teatrali. Eppure potrebbe e dovrebbe trovare maggiore spazio, non solo nelle manifestazioni del Carnevale locale, ma anche fra le più note maschere nazionali, attraverso un’azione programmata di promozione e di valorizzazione alla quale dovrebbero partecipare e concorrere unitariamente le istituzioni politiche e culturali della regione.